Sarà un anno intenso quello di Emilio Vavarella, artista siciliano il cui lavoro coniuga ricerca interdisciplinare e sperimentazione mediale. In questi mesi sta lavorando alla realizzazione di due importanti progetti, “rs548049170_1_69869_TT(The Other Shapes of Me)” – vincitore della VI edizione di Italian Council (2019) – e Mnemoscopio (Mnemoscope) un progetto sostenuto dal MiBACT e da SIAE. Entrambi i progetti sono curati e prodotti da Ramdom, l’associazione di produzione culturale e artistica con sede a Gagliano del Capo, in provincia di Lecce.
In occasione di questi due importanti impegni, abbiamo posto alcune domande all’artista.
Elena Bordignon: Attualmente stai frequentando come ricercatore l’Harvard University, dove stai conseguendo un dottorato in Film, Visual Studies e Critical Media Practice. Mi racconti come questa esperienza influenza e arricchisce la tua pratica artistica? Ci sono dei nessi, sia teorici che pratici, tra le tue ricerche accademiche e le tue opere?
Emilio Vavarella: Tutte le mie opere nascono da una riflessione sull’impatto del potere tecnologico sulle nostre vite e sul nostro pensiero. La mia tesi di dottorato, interdisciplinare e ancora in fase di sviluppo, si focalizza proprio sulla relazione tra la tecnologia e il concetto di essere umano, in diversi momenti storici. E’ una tesi accademica semplicemente perché questo è il medium più adatto a questo tipo di lavoro, ma la tesi è anche un’estensione di un corpus di lavori interdisciplinari che investiga il rapporto essere umano-tecnologia utilizzando di volta in volta un medium diverso e da un punto di vista diverso. Ad Harvard ho l’opportunità di portare avanti la mia ricerca artistica utilizzando le tecniche, i materiali, e i metodi che meglio danno forma alle mie domande, spaziando dalla teoria alla pratica a seconda di ciò che ogni specifico progetto richiede.
EB: In occasione di una tua personale alla Gallleriapiù di Bologna (Dicembre – Gennaio 2019), RE-CAPTURE: Room(s) for Imperfection, in un’intervista, hai affermato: “Preferisco lavorare per esperimenti ed ipotesi, sempre pronto a rimettere in discussione punti di partenza e di arrivo.” Questa tua necessità di confrontarti sia con la genesi che con i risultati del processo artistico, mi induce a vederti come un artista – scienziato che necessita di dover compiere sempre dei test sul proprio operato. Mi racconti da cosa parti per concepire un’opera? Come ne sviluppi l’idea e la concretizzi?
EV: In linea di massima tutte le mie opere nascono da un lungo percorso di ricerca concettuale e tecnologica su molteplici livelli, seguito da una formalizzazione in cui gli spunti e le riflessioni che costellano la mia ricerca trovano una loro sintesi visiva e concettuale. La spinta iniziale è sempre la curiosità di andare conoscere ciò che ancora non so e di riuscire a vedere ciò che non è ancora visibile. Nel corso degli anni ho dato vita ad un archivio molto esteso di work-in-progress: collezioni di documenti, immagini, testi, appunti o altri materiali su cui torno ciclicamente. Potrei dire che queste collezioni sono il modo attraverso cui nutro, a volte anche per anni, idee ancora ad uno stato embrionale o in lenta evoluzione. Ma non si tratta mai di un’evoluzione lineare. Con il progredire delle mie ricerche comincio a implementare le prime ipotesi, teorie, tecniche, ed a sperimentare diversi metodi di lavoro, alla ricerca di quelli più affini ai materiali ricercati e alle domande in questione. L’opera finale arriva sempre in seguito ad un’improvvisa correlazione tra ricerche e materiali precedentemente distinti. Potremmo dire che l’opera finale nasce solo a questo punto, allo stabilirsi di una connessione che scavalca ogni apparente inconciliabilità per proporre una nuova ipotesi di realtà.
EB: Il tuo lavoro si è connotato, nel tempo, come ‘interdisciplinare’. Quali discipline extra-artistiche senti più consone con la tua ricerca? Quanto il ‘potere tecnologico’ ti condiziona?
EV: Penso che il potere della tecnologia rappresenti la maggiore fonte di influenza sulla vita di un essere umano, e credo che nessun essere umano sia mai stato immune da questo tipo di condizionamento. Ogni tecnologia è il prodotto delle nostre attività tanto quanto noi esseri umani siamo, da ogni punto di vista, il prodotto di particolari tecnologie. Umanità e tecnologia sono l’una il prodotto dell’altra, e il concetto stesso di ‘natura umana’ è inscindibile da quello di ‘tecnologia.’ Tutto ciò che sappiamo di noi stessi e della nostra storia è che non sono mai esistite né culture, né forme di vita umana, di tipo pre-tecnologico. Il rapporto tra questi due termini – umanità e tecnologia – è improntato alla loro mutua riproduzione, e un’ipotetica risoluzione del loro rapporto comporterebbe un radicale stravolgimento del concetto stesso di umanità. Però, nonostante non vi possa essere alcuna umanità al di fuori di un continuo condizionamento tecnologico, nel corso di migliaia di anni ogni cultura ha inventato nuovi modi per mediare il proprio rapporto con la tecnica e la tecnologia. Proprio per questo mi interessano tutte quelle discipline che, in un modo o in un altro, dall’ingegneria alla filosofia, si occupano di mediare il nostro rapporto con la tecnologia.
EB: Hai in programma due importanti progetti per il 2020: “rs548049170_1_69869_TT (The Other Shapes of Me)”, vincitore della VI edizione di Italian Council (2019), e Mnemoscopio (Mnemoscope,) un progetto sostenuto dal MiBACT e da SIAE (entrambi curati e prodotti da Ramdom). In merito al primo progetto citato, mi racconti la sua genesi? Quali spunti iniziali hai sviluppato?
EV: L’opera è il risultato di un lungo processo performativo durante il quale un grande tessuto che codifica e contiene tutte le mie caratteristiche genetiche viene prodotto da mia madre utilizzando un telaio Jacquard di fine ‘800. L’opera finale si compone di tre parti: il tessuto, il telaio, e un video della produzione. L’opera nasce da una ricerca sull’origine delle tecnologie di tipo binario e sulle sue applicazioni più avanzate. Questa ricerca mi ha immediatamente portato ad interessarmi alla storia del tessile, poiché il primo telaio automatizzato di epoca moderna, il telaio Jacquard, può essere considerato come il primo vero computer. In altre parole, informatica e tessitura condividono, a inizio ‘900, le stesse tecniche di programmazione.
Ma i parallelismi che ho cominciato a investigare riguardano anche il tema del lavoro femminile, che include tanto il mondo domestico della tessitura quanto quello delle prime programmatrici e operatrici di macchine computazionali. Infine, tornando alle più recenti applicazioni dell’informatica, ci sono sicuramente quelle legate agli studi sulla genetica, che mi interessano molto. Il codice genetico non è altro che la codifica, effettuata da tecnologie binarie, delle informazioni contenute all’interno delle nostre cellule. Da qui l’idea di processare il mio codice genetico, con il fondamentale apporto di mia mamma, utilizzando il primo computer moderno: il telaio Jacquard di fine ‘800. L’opera è il risultato di questo processo sperimentale e non-lineare che ripercorre simbolicamente tutta la storia della tecnologia binaria: dalla tessitura alla programmazione, agli algoritmi, software, ai processi di automazione, fino alla completa informatizzazione di un essere umano.
EB: Mnemoscopio è un progetto che pone al centro il concetto di “memoria collettiva”. Anche in questo caso, mi racconti quali idee iniziali hai considerato – o scartato – prima di rendere realizzabile questo complesso progetto?
EV: Durante la progettazione di questo lavoro mi sono soffermato a riflettere su come esso potesse espandere una serie di altri lavori incentrati sul rapporto tra memoria e tecnologia. In THE SICILIAN FAMILY (2012-‘13) ho lavorato sulla distorsione tecnologica di memorie di famiglia; e in MNEMODRONE (2014) ho esplorato la possibilità di costituire un’intelligenza artificiale sulla base di memorie condivise con un drone, in MNEMOGRAFO (2016) ho lavorato sul riaffiorare di memorie in Rete, e su alcune mie memorie d’infanzia; ed in MEMORYSCAPES (2013-‘16) ho lavorato sul potenziale cartografico di italiani emigrati, come me all’epoca, a New York.
MNEMOSCOPIO (2020) andrà ad ampliare questo corpus di opere focalizzandosi sulla questione della memoria collettiva di coloro che sono partiti da Gagliano del Capo – luogo in cui Ramdom opera attivamente – per poi farvi ritorno. Dal punto di vista tecnico l’opera coniugherà una forte dimensione estetica ed esperienziale con alcune soluzione tecnologiche sperimentali ed un approccio installativo e fruitivo site-specific. Penso a questo lavoro come ad una installazione pubblica effimera e diffusa sul territorio del Capo di Leuca, un viaggio nel viaggio, insomma.