In occasione dell’avvio della nuova produzione dell’artista Emilio Vavarella – progetto targato Ramdom in collaborazione con il MAMbo di Bologna, The Film Study Center di Harvard (Cambridge, USA) e Arthub Asia (Shanghai, China) – abbiamo approfondito le linee guida dell’associazione di produzione culturale e artistica fondata nel 2011, con sede a Gagliano del Capo, in provincia di Lecce. Ramdom si è distinta, nel panorama artistico degli ultimi anni, per la promozione di progetti d’arte contemporanea con respiro internazionale in dialogo con il territorio del Salento, come Indagine sulle Terre Estreme e Default, attraverso mostre, installazioni d’arte pubblica, residenze, workshop ed incontri.
Una di queste iniziative è proprio, rs548049170_1_69869_TT (The Other Shapes of Me), il progetto di Emilio Vavarella vincitore della VI edizione di Italian Council (2019). Sempre Vavarella è anche l’autore di un altro progetto che prenderà avvio tra pochi mesi, MNEMOSCOPIO – curato e prodotto da Ramdom – vincitore di SIAE “Per Chi Crea – Nuove Opere” (2019).
Nell’intervista che segue, abbiamo chiesto a Paolo Mele, Direttore e fondatore di Ramdom e a Claudio Zecchi, curatore e sviluppo network, di raccontarci come è nata l’associazione, quali progetti e programmi hanno fortificato le collaborazioni con il territorio del Salento e le specificità di una ‘particolare’ base operativa situata al primo piano della Stazione Ferrovia Gagliano – Leuca: “Lastation è un avamposto e un osservatorio che negli anni è diventato un luogo profondamente iconico non tanto dal punto di vista architettonico quanto dal punto di vista simbolico”. Gli abbiamo chiesto di raccontarci com’è nato il progetto vincitore della VI edizione di Italian Council (2019) – rs548049170_1_69869_TT (The Other Shapes of Me), titolo che fa riferimento alla prima riga di testo risultante dalla genotipizzazione del DNA dell’artista stesso – e spiegarci l’attinenza Mnemoscopio, con il territorio: “Questo lavoro ha a che fare con un tema che emerge molto spesso dalle produzioni di Ramdom: il tema della memoria e più in particolare della memoria collettiva e della sua stratificazione attraverso la realizzazione di una cartografia di ricordi legati all’idea di casa partendo da coloro che sono partiti da Gagliano del Capo per poi farvi ritorno.”
Elena Bordignon: Produzione culturale e artistica: questa è la mission dell’associazione Ramdom, con sede a Gagliano del Capo, in provincia di Lecce. Mi raccontate come nasce Ramdom e le ragioni che stanno dietro alla sua apertura nel 2011.
Paolo Mele: In quegli anni la Puglia stava vivendo una stagione di rinascita politica e culturale e l’aria del “We Can” obamiano aveva contagiato anche il tacco dello Stivale. Fare e vivere di cultura e arte, improvvisamente, non sembrava più un’eresia, nemmeno al sud e con l’amico e artista Luca Coclite decidemmo di chiedere alla Regione Puglia il sostegno per avviare un progetto votato a supportare la mobilità e la formazione degli artisti e degli operatori del settore e a realizzare, quello che oggi viene più tecnicamente definito, “audience engagement”. A Lecce, come nel resto del Salento, gli spazi e le piattaforme dedicate all’arte contemporanea nel 2011 si contavano sul palmo di una mano e ci ponemmo come obiettivo quello di avviare una discussione profonda sul senso del lavoro artistico in contesti poco abituati a parlare e lavorare sull’arte contemporanea. Più che allinearci a modelli esistenti, in un contesto vergine e fertile come quello pugliese, ci interessava lavorare sui punti di crisi e rottura, sui Default, ma allo stesso tempo imbastire una sostenibilità culturale, sociale ed economica di un progetto legato all’arte contemporanea nel sud d’Italia, nel centro nel mediterraneo.
EB: Una delle caratteristiche principali di Ramdom è la necessità di fare ‘sistema’ con il territorio del Salento, attraverso mostre, installazioni di arte pubblica, residenze ecc. Mi spiegate come avete reso possibile una collaborazione con il territorio, aspirando, però, a una visibilità internazionale? Cosa lega il locale con una visione sopranazionale?
PM: Il nostro lavoro nasce e si sviluppa, sin dalle sue origini, come un progetto profondamente radicato al territorio e al suo studio. Il progetto Default, per esempio, nasce in primis come una sorta di autodenuncia: nel 2011 il Salento da cartolina cominciava a farsi strada, i flussi turistici aumentavano e, per certi versi, anche l’orgoglio di una parte di territorio che, senza particolari meriti, cominciava a ostentare una sorta di arroganza culturale. Per noi, che venivamo da esperienze professionali nazionali e internazionali, la provincialità, nello specifico suoi temi del contemporaneo, era quasi sconcertante e decidemmo di provare a rimboccarci le maniche e colmare un evidente gap attivando collaborazioni con organizzazioni e professionisti provenienti da ogni parte del mondo per cercare di accendere un po’ di curiosità e favorire la partecipazione, ma anche e soprattutto per incentivare la formazione di artisti, curatori e operatori culturali del territorio. Da lì, il passo verso la produzione è stato relativamente breve e la collaborazione con artisti di grande valore come Carboni, Andreco, Casas, ha contribuito a mettere i primi tasselli per la realizzazione di una collezione che ormai conta più di 50 opere prodotte.
CZ: Non credo si tratti di due piani tra loro in antitesi; li immagino piuttosto complementari, in costante dialogo tra di loro e capaci di alimentarsi l’uno con l’altro. Il piano internazionale è un’estensione del territorio, delle risorse e delle possibilità che questo ci mette a disposizione. E credo che questa impostazione sia piuttosto naturale se pensiamo a Ramdom come una piattaforma capace di muoversi nello spazio in maniera piuttosto flessibile. Prendi ad esempio un progetto come Default: si tratta di una masterclass internazionale biennale nata nel 2011 e giunta nel 2019 alla sua quinta edizione. Le ultime tre edizioni (2015-2017-2019) si sono concentrate sul tema delle Terre Estreme, cuore pulsante della ricerca di Ramdom, da punti di vista differenti. Così l’interrogativo sulle Terre Estreme ha a che fare non solo con l’aspetto geografico ma anche con il punto di osservazione – estremo rispetto a cosa? – e questo ci permette di operare un ribaltamento della prospettiva. Così la punta più estrema a sud-est d’Italia diventa la porta d’accesso, il Capo, oppure, ancora più interessante, il centro del Mediterraneo con tutto quello che comporta oggi osservare il Mediterraneo. Quest’anno, ad esempio, abbiamo fatto un esperimento e tentato di mettere in relazione tre estremi differenti: quello del territorio in cui operiamo con l’estremo più occidentale del Portogallo (CHAIA – Centro de História da Arte e Investigação Artística da Universidade de Évora – è stato uno dei nostri partner culturali) e infine un estremo concettuale, che attiene alla sfera concettuale. Quello che voglio dire è che dipende da dove posizioni la lente. Se ti allontani o se ti avvicini. Cambia la scala di riferimento ma non la portata del progetto e della riflessione che il progetto porta con sé.
Stessa cosa, sebbene attraverso tematiche e per ragioni differenti, vale per i due progetti di Emilio Vavarella, Mnemoscopio (Mnemoscope) e rs548049170_1_69869_TT (The Other Shapes of Me) che stiamo curando e producendo.
EB: La sede di Ramdom si trova al primo piano della Stazione Ferrovia Gagliano – Leuca. Mi raccontate i limiti e le potenzialità della vostra ‘particolare’ base operativa?
CZ: Lastation è un avamposto e un osservatorio che negli anni è diventato un luogo profondamente iconico non tanto dal punto di vista architettonico quanto dal punto di vista simbolico. L’ultima stazione a sud-est d’Italia ci connota in maniera molto precisa rispetto al lavoro che facciamo sia dal punto di vista della ricerca che della metodologia.
Chiaramente non è l’unico posto in cui operiamo: molti dei nostri progetti, infatti, si attivano nello spazio pubblico come ad esempio il radio documentario Scarcagnuli realizzato da Riccardo Giacconi e Carolina Valencia Caicedo che abbiamo presentato al Bar 2000 in forma di cinema senza immagini; OLGA di Lia Cecchin che abbiamo presentato al Central Bar; piuttosto che Intervallo di Jacopo Rinaldi nella vagone di un treno o la Luminaria di Carlos Casas per molto tempo installata nella piazza antistante alla stazione stessa. Lastation è però un luogo che ci permette di sviluppare una programmazione costante con formati differenti durante l’intero corso dell’anno: mostre, programma pubblico, performance, proiezioni, residenze, workshop, laboratori con i bambini infatti si alternano e alimentano un’offerta culturale ampia. Questo ci permette di essere presenti e tenere un legame molto saldo con il territorio. Oltre ad essere il luogo in cui ospitiamo artisti, curatori, ricercatori o semplici appassionati nazionali e internazionali per passare un periodo in residenza, Lastation è anche la base della nostra Mediateca (Osservatorio sulle Terre Estreme) dove è possibile venire e fare ricerca a partire dalle produzioni che abbiamo realizzato dal 2011 a oggi o leggere testi specifici. Non credo esista un vero e proprio limite. O meglio, dal mio punto di vista, credo che il suo limite o quello che potrebbe essere percepito come un limite – la sua profonda iconicità e integrazione con il territorio – è anche metodologicamente il suo punto di forza perché ci permette ancora grossi margini di sperimentazione.
PM: Dal 2014 il nostro lavoro si è “estremizzato”: avevamo deciso di lasciare la riflessione sulla città e spostarci nel finis terrae. Nel 2013 la Regione Puglia lanciò un bando chiamato Mettici le Mani, nato per attivare culturalmente degli spazi dismessi e in questa lista c’era il primo piano dell’ultima stazione d’Italia a sud est. Pensammo da subito che non ci fosse miglior location per partire con una progettazione artistica e culturale in un posto così carico di valore simbolico, seppur ridotto a quasi un rudere dato lo stato di abbandono in cui riversava da trenta anni. Lo spazio è piccolo e su un primo piano, quindi presenta diversi limiti sia per le attività espositive e laboratoriali, sia da un punto di vista dell’accessibilità. Tuttavia ha un fascino unico sia per noi che ci operiamo che per tutti gli artisti e ospiti che vengono a lavorare con noi. Una magia che, però temiamo che stia per esaurirsi: Regione e Ferrovie non sembrano intenzionati a rinnovarci la concessione, preferendo destinare l’immobile ad altre ignote funzioni. Vedremo cosa accadrà: se si chiudono spazi cha hanno un ruolo socio-culturale enorme con leggerezza, per far posto a non si sa cosa, è inutile meravigliarsi se il sud si spopola e la migrazione giovanile sia in costante aumento.
EB: La vivacità di Ramdom è anche motivata dalla sua capacità di allargare le collaborazioni, ma non solo anche quella di proporre progetti credibili e coinvolgenti. Mi raccontate cosa avete in programma per il 2020? Nello specifico, vorrei che mi raccontiate, a grandi linee, il progetto vincitore della VI edizione di Italian Council (2019).
CZ / PM: Questo progetto è un ottimo esempio di quello si diceva precedentemente rispetto a come posizionare la lente. Si tratta infatti di un progetto che mette in dialogo il territorio, le sue risorse e le sue potenzialità con una scala più ampia e il contesto internazionale. Quando parliamo di scala non intendiamo solo la scala geografica ma anche la portata delle riflessioni che possono essere generate e alimentate.rs548049170_1_69869_TT (The Other Shapes of Me) è il titolo complesso ma estremamente evocativo del lavoro di Emilio Vavarella che fa riferimento alla prima riga risultante dal processo di genotipizzazione del suo DNA. Il progetto, consisterà di tre elementi: un telaio con una macchina Jacquard, un tessuto che restituirà visivamente il codice genetico dell’artista processato attraverso un software e, infine, un video di documentazione del processo di lavorazione con degli innesti visivi e sonori astratti. Il progetto verrà interamente prodotto a Gagliano del Capo presso la Tessitura Giaquinto per quanto riguarda la parte tessile mentre negli Stati Uniti verrà sviluppata la parte software. L’opera andrà infine a far parte della collezione permanente del MAMbo di Bologna. La cosa interessante è che la tessitura Giaquinto ci metterà a disposizione una delle pochissime macchine Jacquard di fine Ottocento ancora disponibili in Italia e che sia una delle poche tessiture in Italia ad avere a disposizione questo tipo di macchina: quando avevamo costruito l’impianto del progetto, ovviamente, non lo sapevamo e quello che poteva trasformarsi in un elemento di crisi per il progetto, si è trasformato non solo in un punto di forza, ma nella testimonianza dell’importanza che la dimensione locale, per quanto estrema, abbia in progetti come i nostri.
Alla parte di produzione seguirà poi una parte di ricerca e approfondimento teorico che svilupperemo tra Shanghai in collaborazione con Arthub Asia e il Film Study Center di Harvard. Toccheremo temi di grande attualità: oltre ad un approfondimento della tradizione tessile locale e più in generale del sud Italia, il punto di partenza dell’opera sarà la sfera più intima e personale dell’artista stesso, ovvero il suo DNA e il coinvolgimento diretto della mamma nella tessitura dell’opera. Attorno a questo ruoterà una narrazione più ampia che ci permetterà di approfondire temi di portata generale come ad esempio la digitalizzazione della vita, il rapporto tra macchina e lavoro o il tema del lavoro al femminile che fa da collante a tutto il lavoro se si pensa che la macchina Jacquard, uno dei primi “computer” della storia, veniva operata dalle donne.
EB: Sempre quest’anno avete vinto, con Mnemoscopio di Emilio Vavarella, il premio di SIAE “Per Chi Crea – Nuove Opere” (2019). Mi introducete questo progetto?
CZ / PM: Questo lavoro ha a che fare con un tema che emerge molto spesso dalle produzioni di Ramdom: il tema della memoria e più in particolare della memoria collettiva e della sua stratificazione attraverso la realizzazione di una cartografia di ricordi legati all’idea di casa partendo da coloro che sono partiti da Gagliano del Capo per poi farvi ritorno.
Lo stesso Vavarella ha già affrontato il tema in altri lavori: in MNEMOGRAFO ha lavorato ad esempio sul riaffiorare delle memorie in Rete; in MEMORYSCAPES sul potenziale cartografico di memorie collettive di italiani emigrati a New York; in The Sicilian Family sul peso delle memorie di famiglia; e in MNEMODRONE sul ruolo che la memoria ha nello sviluppo di droni e intelligenze artificiali.
Mnemoscopio (Menemoscope) è un progetto che per certi versi chiude un po’ il cerchio se si pensa che la stazione dei treni di Gagliano-Leuca, anche sede di Ramdom, è il luogo da cui le persone partivano per cercare di raggiungere condizioni di vita migliori.
Si tratta di un’opera pubblica intimamente legata al territorio e alle sue storie. Un oggetto – ad oggi siamo in piena fase di ricerca hardware e la definizione estetica del progetto è in progress – che contiene un sistema di visualizzazione ideato dall’artista: un apparato che fonde realtà virtuale, site-specificity e relazionalità. Il risultato sarà la produzione di un nuovo spazio cartografico in cui si intrecciano luoghi, memorie, e dimore presenti e passate.
Un lavoro che ci permette non solo di accrescere la nostra presenza sul territorio, ma anche di creare un legame tra l’opera e la collettività locale, visto che MNEMOSCOPIO non potrebbe essere realizzato se le persone del posto non si mettessero a completa disposizione dell’artista raccontando e condividendo le loro storie personali. Si tratta di un lavoro anche emotivamente coinvolgente perché ti mette a diretto contatto con le persone, con i loro ricordi, e con la loro voglia di condividerli.